di Marco Alviti

È giusto far alzare in piedi gli alunni quando entra in classe il docente?
Questa domanda, che riguarda un aspetto forse apparentemente banale della vita scolastica, divide le persone che abitano la scuola perché ha a che fare con l’annoso problema del confine posto tra rispetto e autoritarismo.
Da un lato, infatti, c’è chi sostiene che questa tradizione infonda un senso di riguardo per l’insegnante, presupposto fondamentale nel processo di apprendimento, ma che sia anche una sorta di “netiquette” da utilizzare anche in altre situazioni, per esempio quando si accoglie un ospite in casa. Qualcuno inoltre segnala che spesso i ragazzi non si accorgono nemmeno che l’insegnante stia entrando in aula, ecco allora che l’atto di alzarsi in piedi diventa preferibile, richiedendo agli alunni di prestare attenzione e conferendo importanza e rispettabilità alla figura del docente.
Dall’altra parte, invece, si schierano coloro che lo ritengono un deprecabile atto formale, retaggio di un’antiquata cultura autoritaria; meglio allora conquistarsi un rispetto sostanziale, costruito e guadagnato nel tempo attraverso la relazione con lo studente. Chi sostiene questa visione sottolinea inoltre che, se alzarsi costituisce un segno di rispetto verso l’altro, anche i docenti e il Dirigente scolastico dovrebbero alzarsi tutte le volte che entra uno studente o un collaboratore, in caso contrario questo gesto evidenzierebbe solo differenti status e gerarchie d’importanza.
La scuola, per chi a vario titolo si occupa di studiare i cosiddetti “dispositivi di controllo sociale” (ovvero, potremmo dire, tutte le “forze” materiali e non che consentono di controllare l’azione e il pensiero dell’uomo inserito in un determinato contesto), costituisce un luogo davvero interessante: la disposizione assegnata alle persone (docenti e studenti) che identifica chi possiede il sapere e chi no, ma anche che stabilisce come sia concesso muoversi nello spazio, contribuisce a strutturare il dispositivo di controllo dei corpi, corpi che devono occupare uno spazio preciso (quello definito dal banco), che devono essere autorizzati a spostarsi (dal docente, deputato anche alla sorveglianza), muovendosi entro tempi prestabiliti (scanditi dalla campanella). Ecco allora che in quest’ottica la disciplina scolastica si avvicina all’addestramento militare, alla visione del corpo come oggetto del potere, soggetto a costrizioni, divieti e obblighi; un potere subdolo e quasi invisibile, che passa attraverso dettagli, piccoli gesti e sfumature. La disciplina organizza gli spazi e assegna posti, dunque definisce ordini e gerarchia.
È in questa articolazione del pensiero che si inserisce il discorso di chi abbandonerebbe la consuetudine di far alzare in piedi i ragazzi quando entra il professore, prassi che richiama i ranghi militari e che assegna un’importanza particolare all’insegnante rispetto all’ordinata e controllata omogeneità degli alunni.
Certo, va anche detto che l’assenza di forma non porta automaticamente alla conquista della sostanza e che l’esercizio del controllo ha a che fare anche con la presenza di regole che sono sempre necessarie al funzionamento dei gruppi sociali. Inoltre il semplice abbandono della forma in nome della “bontà della sostanza” che, dipendendo da una sorta di “carisma del docente”, consenta allo studente di imparare a rispettare l’altro e di inserirsi nella società, risulta alquanto insufficiente e inconsistente.
La questione di fondo, dunque, non è tanto se sia giusto alzarsi quando entra il docente, ma quale sia nel complesso la struttura educativa che consenta alla scuola di contribuire alla formazione alla reciprocità e al rispetto di sé e dell’altro. Ecco che il punto nodale del discorso si dispiega nella consapevolezza maturata dalla persona in riferimento ad un atto la cui presenza non garantisce sostanza, tanto quanto non la garantisce la sua assenza.
Per approfondire vedi anche:
– https://www.orizzontescuola.it/studenti-si-alzano-in-piedi-quando-linsegnante-entra-in-classe-un-modello-educativo-superato-o-una-forma-di-rispetto-senza-tempo/
– Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, 2014.